Danilo Petrucci, l’intervista: “Famiglia e infortuni, maestri di vita”

Danilo Petrucci
Smartworld
di Cristina Marinoni

Il rider del team Octo Pramac Yakhnich parla dei genitori "eccezionali" e dell'incidente che lo ha convinto a non ritirarsi

“Il mio primo ricordo in assoluto? Nella culla: giocavo con il modellino di una moto. Il secondo? A 3 anni, mentre mi cappotto su una motociclettina. E mi hanno detto che a casa della nonna, a gattoni, andavo a gettare nel fuoco le riviste. A parte quelle di moto”.

Danilo Petrucci, 26 anni a ottobre, racconta con il sorriso la sua storia: l’orgoglio di essere un pilota è grande, come il suo amore viscerale per le due ruote, ereditato da papà: “Quando sono nato, andava in moto e lavorava già nel Motomondiale. Ora è impegnato nell’hospitality del team Leopard Racing di Moto3” dice.

Lo spunto iniziale della chiacchierata con il rider ternano che correrà nel team Octo Pramac Yakhnich anche nel 2017 – e aspetta di sapere se l’anno prossimo avrà a disposizione la stessa Desmosedici dei piloti della scuderia Ducati ufficiale, Jorge Lorenzo e Andrea Dovizioso – è la famiglia.

Argomento che a Petrux sta molto caro: “I miei genitori avrebbero potuto vivere da ricchi, invece hanno tirato la cinghia per far correre me in moto e mio fratello in bici. Non finirò mai di ringraziarli”.

Però hai già cominciato a ripagare i loro sacrifici con le vittorie: nel 2011 ti sei laureato campione italiano della Stock 1000 e hai perso il Mondiale per un soffio.

“Spero di rimpinguare presto il palmarès e condividere con loro la gioia di arrivare davanti a tutti. Glielo devo: mamma mi ha sempre incoraggiato a montare in sella e solo questo la rende più unica che rara. Papà è stato mio compagno inseparabile d’avventura per anni: abbiamo macinato migliaia di chilometri su furgoni, camper, camion, auto per raggiungere i circuiti. Poi sono cresciuto e ho preso la mia strada, ma siamo ancora molto amici e per me resta un punto di riferimento fondamentale”.

Ti dà qualche consiglio?

“Sì e ha una dote che gli invidio molto: non perde la calma nemmeno nell’occhio del ciclone.

Pensa che non mi è ancora capitato di cogliere un sua espressione di preoccupazione. Ecco perché averlo accanto quando sento la tensione della gara mi è di enorme aiuto. Da lui ho imparato un motto che è diventato il mio mantra, me lo ripeto di continuo nella mente prima di aprire il gas”.

Sarebbe?

“Fai il massimo, ma domenica prossima dobbiamo andare di nuovo. Tradotto, significa: divertiti, dacci dentro senza esagerare oppure rischi di cadere e saltare una gara o più. Il mestiere del pilota non è quello del pianista: l’incolumità fisica è precaria, bisogna stare sempre in campana”.

Tu ne sai qualcosa: nella mano destra hai due placche e venti viti.

“L’ultimo incidente, durante i test a Phillip Island, è stato davvero pesante: ho rimediato la frattura scomposta del secondo, terzo e quarto metacarpo. Il Campionato per me è cominciato alla quinta tappa, a Le Mans, e mi sono piazzato settimo: avevo il contratto in scadenza, dovevo dare l’anima”.

Anche la caduta del 2014, a Jerez de la Frontera, ti aveva messo ko: frattura del polso sinistro e stop per tre Gran Premi.

“Gli infortuni non succedono per caso e insegnano parecchio. Quello di due anni fa è l’esempio perfetto. A inizio stagione volevo appendere il casco al chiodo: sembrava che per me non ci fosse posto né in MotoGP né in WorldSBK né in altri Campionati. Contro ogni pronostico e senza fare i test, alla fine mi ero messo al lavoro con il team, ma nel box continuavo a ripetere che la moto era molto pericolosa e non mi fidavo.

Proprio a Jerez, dopo le qualifiche, avevo comunicato che sarebbe stata la mia ultima gara. A convincermi a rimettermi in sella è stata mamma: ‘Porta a termine il lavoro, finisci in pista il weekend’.

Risultato: durante il warmup la moto è rimasta in accelerazione e mi sono rotto il polso. Immaginati quanto si sia sentita in colpa lei.

A cosa mi è servita la brutta botta? Nei due mesi in cui sono stato fermo ho capito che volevo continuare a correre. Le settimane precedenti all’infortunio erano state davvero difficili, mente e corpo si ribellavano a una situazione insostenibile; nel momento in cui ho fatto pace con il mio mondo, l’allarme è rientrato. Come quest’anno: il fisico era sotto pressione, non seguiva il cervello, che invece girava a mille. Ha ripreso il ritmo giusto dopo il necessario periodo di riposo”.

Hai mai pensato di fare altro nella vita?

“No, però non mi sarebbe dispiaciuto diventare cuoco. Avrei voluto iscrivermi alla scuola alberghiera, ho scelto il liceo scientifico su indicazione di mamma e me la cavavo: il problema era che, se credevo di non prendere almeno sette in un compito in classe, non mi presentavo”.

La cucina, allora, è una tua passione.

“Sì, mi rilassa e mi mette di buonumore. Peccato che stia di rado ai fornelli, in particolare ultimamente La mano fratturata mi ha costretto a trasfermi in un appartamento sopra i miei genitori e, in pratica, lì dormo e basta. Ancora per poco: non vedo l’ora di tornare ad abitare da solo, nei dintorni di Pesaro: a Terni sto bene, ma lì ho la possibilità di allenarmi con tanti piloti della zona ed è questa caratteristica che fa la differenza. Il confronto mi sprona a migliorarmi, sono un tipo competitivo”.

Sei anche scaramantico?

“Tantissimo. La sequenza di gesti che sono convinto portino bene parte dal mercoledì, quando preparo la valigia. Metto il paio di scarpe fortunate e i calzini preferiti. L’apoteosi avviene prima di mettermi entrare nel tracciato: non solo mi vesto secondo una procedura precisa, anche lungo il mio percorso tutto deve essere a regola d’arte, altrimenti è un problema”.

Un esempio?

“Se qualcosa è in una posizione diversa dal solito, faccio caso persino alla zip di una borsa, devo per forza sistemarlo.

I meccanici lo sanno e tengono in ordine ogni centimetro quadrato”.

Hai detto che sei competitivo: a Silvertsone, nel 2015, sei salito sul podio della classe regina per la prima volta. A cosa rinunceresti pur di sollevare di nuovo un trofeo?

“Vado matto per la pizza e sarei disposto a non mangiarla per un anno. È vero che non la assaggio spesso perché evito il glutine – mi sono accorto che peggiora le prestazioni – ma resistere 12 mesi è un’impresa!”.

(Foto: Stefano Biondini)